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Personalizzare il Rito? Quasi Impossibile

Ciascuno di noi, all’udire la parola “matrimonio”, comincia a prefigurarsi degli scenari. Qualcuno è più legato alla tradizione, altri meno, ma tutti pensiamo al nostro matrimonio come a qualcosa di speciale e unico. Lo vorremmo talmente personalizzato sulla nostra indole, da cercare ad ogni modo di dare a tutte le sequenze di quella giornata un tocco particolare. Anche i più tradizionalisti cercano di conferire originalità allo stesso rito religioso.
Per questa ragione, da un po’ di tempo, si stampano libretti della messa degli sposi personalizzati. Nella maggior parte di questi, però, troveremo solo le indicazioni dei nomi degli sposi e dei testimoni cui viene affidata una specifica lettura. Al limite, anche il nome della damigella o del paggetto che porterà gli anelli all’altare. Le letture che si pronunciano durante la funzione, infatti, possono essere, sì, scelte dalla giovane coppia, ma limitatamente ai testi sacri. Che non venga in mente di leggere un brano tratto da altra opera letteraria, per quanto candida e poetica possa essere, per quanto significativa e pregna di riferimenti al senso che voi stessi date a quel che state facendo, pena la validità della funzione stessa.

È capitato, riferiscono alcuni sacerdoti, che gli sposi chiedessero di recitare delle reciproche promesse anziché la formula data “io prendo te, come mio sposo, e prometto d’amarti ed onorarti…”. Nella chiesa Cattolica le promesse personalizzate sono ammesse, solo in aggiunta alla formula e con le letture alternative, eventualmente, dopo la funzione che si sviluppa in quattro parti: la liturgia della parola, la liturgia del matrimonio, la liturgia dell’eucarestia, la benedizione finale (il matrimonio è un sacramento). Molte confessioni protestanti ammettono invece la lettura di promesse scritte dagli sposi (in quanto il matrimonio non è un sacramento, ma l’unione della coppia benedetta da Dio davanti alla comunità dei credenti).

È vero, ci dicono gli addetti ai lavori, che certe letture tratte dai vangeli, dalle lettere degli apostoli, e certamente quelle tratte dall’antico testamento, sembrano svilire la figura della sposa: “mogli, siate sottomesse ai vostri mariti… come Sara che obbediva ad Abramo, chiamandolo signore”; oppure “È un dono del Signore una donna silenziosa”. Parole, seppur sacre, che non rispecchiano le esigenze delle coppie, le identità della nostra società, ma è pur vero che quegli scritti, sono i primi scritti e che, in quanto tali, facevano riferimento ad una società diversa. Possiamo e dobbiamo, quindi reinterpretarli, ma non modificarli o sostituirli.

Sono pochi i ministri di culto cattolici disposti ad accogliere, durante il rito del matrimonio, le “personalizzazioni” degli sposi.
Qualche giovane officiante potrebbe lasciar passare una o due stravaganze, ma su di un punto pare siano tutti d’accordo: l’Ave Maria di Schubert è stata bandita. Dopo più d’un secolo di matrimoni con ingresso trionfale della sposa sulle note del compositore, si è deciso di definirla per quel che è: musica profana. Musica e testo (originario) fanno parte di «Opus 52», un gruppo di sette canzoni tratte dal poema epico dello scrittore scozzese Walter Scott, “La signora del lago”. L’Ave Maria è, sì, una invocazione, ma rivolta a Maria Vergine dalla figlia (anch’essa vergine) del protagonista, un’invocazione che nell’ultima strofa recita «…benevola chinati su questa vergine, verso la figlia che per il padre prega. Ave Maria». Di recente s’è invece diffusa la leggenda metropolitana secondo la quale l’Ave Maria sarebbe stata vietata perché Schubert avrebbe composto il celebre brano per la sua amante e per questa ragione sarebbe stata vietata dal Vaticano. Falso il motivo, vero il divieto.

 

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